lunedì 18 maggio 2015

L’uomo che inventò il reggae

Persino il presidente Obama nel suo viaggio in Giamaica non ha potuto fare a meno di visitare il suo museo. E sulla soglia d’ingresso ha ammesso: «Ho tutti i suoi dischi».
D’altronde Bob Marley con i suoi Wailers non è stato solo uno dei più influenti musicisti del ’900 (avendo codificato una volta per tutte la musica reggae) ma si è trasformato anche in una vera e propria guida politica e religiosa. L’appartenenza al Rastafarianesimo lo collocò subito in una dimensione spirituale. La sua musica e i testi che veicolava erano dedicati alla lotta contro l’oppressione politica e razziale e all’invito all’unificazione dei popoli di colore come unico modo per raggiungere la libertà e l’uguaglianza.
Nelle battaglie fu sempre impegnato in prima linea. Come accadde nel dicembre del 1976, tre giorni prima di «Smile Jamaica», un concerto organizzato dal primo ministro giamaicano Micheal Manley allo scopo di alleggerire le tensioni tra i due gruppi politici in guerra.
Tre giorni prima dell’evento Bob, la moglie Rita e il loro manager Don Taylor subirono un attacco da parte di un gruppo armato composto da ignoti nella residenza del musicista. Marley riportò solo lievi ferite al petto e al braccio. Il concerto si tenne ugualmente e quando gli fu chiesto perché avesse cantato egli rispose: «Perché le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero...Come potrei farlo io?!».
Oltre alla musica e alla lotta contro le forme di oppressione, Marley aveva un’altra grande passione: il calcio. E fu proprio questa la passione che gli costò la vita. Durante una partita amatoriale, infatti, si ferì all’alluce e non si curò a dovere. In occasione di una partita successiva l’unghia si staccò definitivamente. Solo a quel punto fu fatta la corretta diagnosi: melanoma maligno che cresceva sotto l’unghia. Da alcuni medici gli fu consigliato di amputare l’alluce, da altri solo il letto dell’unghia. Marley scelse la seconda opzione ma il melanoma non fu curato del tutto e progredì.
Dopo aver concluso una tournée trionfale nell’estate del 1980 (storico il concerto allo stadio San Siro di Milano), Marley tornò negli Stati Uniti e portò a termine le prime date del programma. Dopo due concerti al Madison Square Garden di New York, però, ebbe un collasso facendo jogging al Central Park. Preoccupato per l’accaduto andò a Monaco per un consulto dal dottor Josef Issels, specializzato nel trattamento di malattie in fase terminale. La diagnosi fu drastica: il cancro si era sviluppato e non si poteva più curare.
Un ulteriore peggioramento si avvertì nel volo di ritorno dalla Germania tanto che l’aereo fu deviato verso Miami, in Florida, dove il musicista venne ricoverato presso il Cedar of Lebanon Hospital. Lì morì la mattina dell’11 maggio 1981. Esattamente 34 anni fa.
Marley lasciò tredici figli: tre da sua moglie Rita, due adottati da relazioni precedenti di Rita e altri otto da rapporti con donne da cui si è poi separato. Sul letto di morte disse a Ziggy: «Money can’t buy life» («I soldi non possono comprare la vita»). Il suo testamento spirituale, però, è in «Redemption Song», brano contenuto nell’ultimo «Uprising»: «Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale, nessuno a parte noi stessi può liberare la nostra mente...».
Carlo Antini fonte

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