Come il jazz, il rhythm’n’blues, il funky traggono la loro origine ultima dai tamburi che in determinati giorni veniva consentito agli schiavi di suonare in pubblico a New Orleans (e soltanto a New Orleans), il cuore pulsante di quello che diverrà il reggae – rallentamento del rocksteady, che a sua volta aveva diluito la frenesia dello ska - batte al ritmo tribale delle percussioni nyahbingi, lo stile preferito dalle comunità rurali rasta. Come la soul music, il reggae esprime contemporaneamente la sensualità e la spiritualità di un popolo e la tensione verso un riscatto dall’eredità della schiavitù. E come il rap, che ha anticipato, e il canto del griot africano (da sempre cronista oltre che intrattenitore) di cui è un chiaro discendente, il reggae è cronaca orale: parlate ai giamaicani di “CNN dei neri”, a loro che – per dire – nel 1980 si sentirono porgere da Clint Eastwood & General Saint una versione alternativa a quella ufficiale di come la polizia avesse ammazzato il dj General Echo a pochi giorni dalla tragedia; a loro che, quando nel 1988 l’uragano Gilbert devastò l’isola, almeno poterono consolarsi godendosi le centinaia di canzoni ispirate dall’evento. Il che tuttavia non basta a dare una ragione del perché il reggae sia diventato così popolare ovunque, dalle periferie londinesi e parigine alle bidonville brasiliane, dal Salento all’India, al Giappone. Perché non è rimasto una moda passeggera come fu, ad esempio, il calypso? Perché le tante musiche africane, pur trovando buona diffusione in Occidente, non hanno avuto un impatto nemmeno lontanamente paragonabile? Come è arrivato a influenzare il rock e, con le sue tecniche più ancora che con quella battuta in levare così caratteristica, più o meno tutto il pop mondiale, dall’hip hop al bhangra a tantissima elettronica? C’è chi ha speso centinaia di pagine per raccontare e analizzare, senza riuscire alla resa dei conti a elaborare una spiegazione che sul serio spieghi. Quando se la sarebbe potuta cavare con due parole: Bob Marley.FONTE
Sia chiaro: il reggae non nasce né tantomeno muore con il suo profeta, ma senza non sarebbe divenuto ciò che è, l’unica musica di natali terzomondisti di diffusione universale. A costui dobbiamo essere grati non solamente per decine di canzoni immortali ma per il suo avere dato visibilità al ricchissimo retroterra da cui proveniva, per averci quasi costretto a indagarlo quel retroterra, in cerca di altri come lui, scoprendolo così non gigante in un paese di nani ma, se non primo fra pari, gigante in un luogo popolato da frotte di altri giganti, di una spanna appena o due a lui inferiori. E spesso non è neppure questione di livello delle canzoni, bensì di carisma. Anche se un Marley non ci fosse mai stato, quella della musica giamaicana resterebbe una vicenda prodigiosa per numero di storie e figure eccezionali. Nondimeno va riconosciuto che, dopo la sua prematura scomparsa nel maggio ’81 e proprio nel mentre si infiltrava ovunque, il reggae smarriva gradualmente ecumenismo tornando – dai primi ’90 in poi – a farsi nell’espressione della propria attualità musica rivolta a un’etnia e, fuori da quella, a una cerchia di specialisti. Avrebbe potuto raccoglierne lo scettro Gregory Isaacs, aveva il potenziale per esserne un successore a tutto tondo Buju Banton, ma la verità è che a oggi Bob Marley un erede vero non l’ha avuto e probabilmente non l’avrà mai.
Dire che in Giamaica d’estate fa caldo è come osservare che il papa è cattolico. E però persino per gli standard isolani l’estate del 1966 si rivelava incredibilmente torrida. Si narra che fu perché mossi a pietà per i ballerini che i musicisti cominciarono a rallentare la furiosa scansione di quello ska - derivato dalla giustapposizione di un ritmo singultante al jazz, al soul, al rhythm’n’blues statunitensi - che ormai da qualche anno furoreggiava. Nasceva il rocksteady, subito celebrato da un’omonima canzone di Alton Ellis. Due anni più tardi, il ritmo sarebbe sceso ancora e si sarebbe cominciato a parlare di reggae. Primi a farlo erano i Maytals di Frederick “Toots” Hibbert, cui “Do The Reggay” (scritto proprio così) regalava la prima hit. Ancora poca cosa rispetto a futuri campioni di vendite (e classici assoluti) quali “Pressure Drop”, “54-46 That’s My Number” o “Monkey Man”, ma se c’è una canzone dalla quale si può far cominciare la storia del reggae è questa.
Il termine pare derivi da “streggae”, l’appellativo affibbiato alle prostitute nel ghetto: ironico che il suo destino sia stato quello di etichettare il pop per molti versi più mistico di tutti. Con la conoscenza del poi, si carica di significati e suggestioni che a fare conoscere la nuova musica a una platea internazionale provvedesse nella primavera del 1969 “Israelites”, già un grande successo in Giamaica sei mesi prima per Desmond Dekker. Numero uno in Gran Bretagna e nove negli USA, la canzone accosta la schiavitù in Egitto del popolo ebraico e la condizione degli africani costretti a farsi afroamericani. Per via del forte accento dell’interprete erano tuttavia in pochi anche nei paesi anglofoni a cogliere non diremmo le sfumature ma addirittura l’argomento. La scarsa intelleggibilità contribuirà spesso (paradosso solo apparente) alle fortune commerciali del reggae.
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